Con 12 milioni di capi cresciuti e macellati ogni anno in poche decine di chilometri quadrati, l’allevamento industriale di suini in Italia è una vera e propria bomba ecologica.
Per disinnescarla c’è soltanto un modo: ridurre drasticamente i consumi di carne e offrire ai consumatori un’etichetta trasparente che riveli la provenienza da allevamento intensivo.
È quanto emerge da “Prosciutto nudo: i costi nascosti dell’allevamento industriale di maiali”, la nuova indagine della nostra associazione Terra! che ha ricostruito numeri e impatti di una filiera simbolo del made in Italy, oggi completamente insostenibile. Il rapporto è realizzato con il sostegno della The Nando and Elsa Peretti Foundation, nell’ambito del progetto “Scuola diffusa della Terra – Emilio Sereni”.
Come in molti paesi occidentali, anche in Italia assistiamo a una progressiva riduzione dei piccoli allevamenti. A questo corrisponde una crescita del numero di capi per azienda e la definitiva affermazione di un modello di allevamento intensivo con alti costi ambientali, che investono anche le comunità locali e rappresentano un rischio per la salute pubblica, con lo sviluppo di batteri divenuti resistenti alle massicce dosi di antibiotici somministrate agli animali.
Oggi quasi il 90% dei suini italiani è rinchiuso nel 10% di allevamenti con più di 500 capi. Quasi la metà dei maiali allevati si trova in Lombardia, con ben 3.937.201 capi. In cima alla classifica c’è la provincia di Brescia, con i suoi 2.180 allevamenti per un totale di 1.289.614 capi, più dei suoi residenti umani (1.262.678). I suini “autoctoni” coprono circa il 60 per cento del fabbisogno del nostro paese, in cui ogni anno vengono macellati circa 12 milioni di capi. Il resto è di “origine straniera”, prevalentemente nordeuropea (Olanda e Danimarca).
Negli allevamenti intensivi i resti reflui degli animali chiusi nei capannoni non sono un bene da sfruttare, ma un rifiuto da smaltire. Le feci e le urine sono mescolate con l’acqua di lavaggio e hanno una componente liquida che li rende poco adatti alla fert-irrigazione. L’alta concentrazione di animali in così poco spazio rende questi resti altamente inquinanti perché ricchi di azoto, fosforo e potassio. A tali sostanze vanno aggiunti i farmaci somministrati agli animali, che finiscono con i resti nelle falde acquifere e nell’ambiente.
La quantità di deiezioni prodotte dagli animali d’allevamento è molto elevata. Nel corso di un anno, un suino può produrre feci pari a 15 volte il suo peso. Per dare un’idea dell’impatto, è come se in Italia vivesse una popolazione aggiuntiva di 25,5 milioni di persone che vivono scollegate dal sistema fognario.
Per reggere una filiera a così alta intensità di risorse, servono ogni anno 3,5 milioni di tonnellate di mangimi, gran parte dei quali importati dal mercato internazionale. Se per il mais la produzione italiana copre ancora gran parte del fabbisogno, la soia invece viene quasi tutta dal Sud America (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia). Ogni anno l’Italia importa semi e farina di soia geneticamente modificata, di cui è vietata la coltivazione ma non il commercio.
Al di là della contraddizione sugli OGM, l’utilizzo di queste materie prime per la mangimistica presenta una serie di problemi. Per esempio il consumo di suolo, con la riduzione di superficie agricola da destinare a colture per il diretto consumo umano e l’aumento della deforestazione nei paesi tropicali. Un terzo delle terre arabili oggi serve a produrre mangimi, e potrebbe aumentare a due terzi nei prossimi trent’anni. La riduzione delle terre a disposizione a fronte della crescita della popolazione mondiale pone un problema urgente di risorse a disposizione.
Senza contare che questa produzione su larga scala richiede un significativo uso di fertilizzanti e pesticidi per aumentare le rese. Come accade per i resti reflui degli allevamenti, che vengono scaricati sull’ambiente, anche le componenti chimiche del modello agro-industriale pesano sugli ecosistemi, contribuendo alla proliferazione di zone morte nei laghi e negli oceani.
L’Italia è oggi il secondo paese in Europa, dopo la Spagna, per uso di antibiotici nella zootecnica. Il 68% degli antibiotici consumati nel nostro paese è somministrato negli allevamenti, quasi tre volte più che in Francia. Si tratta di una quantità che supera di gran lunga la media europea e che ci avvicina a paesi dalle legislazioni meno stringenti, come gli Stati Uniti e la Cina.
Questo uso massiccio può avere gravi conseguenze sulla salute pubblica: i farmaci non solo vengono rilasciati nell’ambiente, inquinando le falde acquifere, ma possono provocare lo sviluppo della cosiddetta antibiotico-resistenza. Il sovra-utilizzo di questi medicinali fa sì che i batteri sopravvissuti ai trattamenti si moltiplichino e possano mutare in ceppi ancora più aggressivi, suscettibili poi di attaccare l’uomo. I nuovi superbatteri non sono più trattabili con i farmaci di un tempo, che hanno perso efficacia proprio a causa dell’uso eccessivo degli antibiotici.
Oggi un chilo di prosciutto corrisponde a 11 chili di deiezioni, 4 chili di mangime, 6 mila litri d’acqua e 12 chili di CO2.
Secondo Ciconte, «il modello di allevamento industriale ha trasformato miliardi di animali in macchine fornitrici di materia prima, con impatti giganteschi sul pianeta. Contribuisce al disboscamento di aree ecologicamente importanti come la foresta amazzonica, inquina le falde acquifere e l’atmosfera, aggrava il cambiamento climatico, produce antibiotico-resistenza ed ha un consumo d’acqua spropositato».
È necessaria quindi una inversione di rotta, sia attraverso una drastica riduzione del consumo di carne, sia attraverso una maggiore consapevolezza sugli effetti che gli allevamenti intensivi hanno sul pianeta.
«È urgente costruire un modello di trasparenza in cui al consumatore siano indicati in etichetta i costi ambientali della produzione di carne – raccomanda il direttore dell’associazione Terra! – Bisogna rendere obbligatoria la dicitura “da allevamento intensivo” per tutti i prodotti a base di carne, così da esplicitare il modo di allevamento e gli impatti associati, contribuendo a rompere quella distanza cognitiva che si è venuta a creare tra la carne che consumiamo e l’animale da cui proviene».
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