Mentre le cronache italiane erano concentrate sul nome “corretto” da dare agli hamburger vegani per non “disturbare” l’industria della carne, il Parlamento Europeo destinava un terzo del bilancio comunitario all’agricoltura industriale e all’allevamento intensivo per altri sette anni.
In spregio alle promesse di cambiare paradigma e orientare i fondi europei al raggiungimento della neutralità climatica e al risanamento ambientale, l’Eurocamera ha svuotato in maniera irreparabile la Politica agricola comune (PAC), che con i suoi 357 miliardi di euro in 7 anni rappresenta il principale strumento di sostegno all’agricoltura comunitaria.
Lo slittamento di due anni causato dall’incapacità di mettersi d’accordo fra istituzioni europee avrebbe lasciato tutto il tempo di negoziare una PAC in linea con il Green deal. Ma non è stato fatto.
Con 425 voti a favore, 212 contrari e 51 astenuti (scopri come hanno votato gli eurodeputati), è passata la posizione di compromesso raggiunta già nei giorni scorsi da popolari (PPE), socialdemocratici (S&D) e liberali (Renew). Con uno strategemma ai limiti del regolamento, il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha dato una corsia preferenziale alla votazione sul pacchetto di compromesso, anticipandola di un giorno e rendendo sostanzialmente vana la discussione successiva. Questa votazione toglie senso alla già debole proposta iniziale, avanzata dalla Commissione europea oltre un anno fa.
Non sono bastate le mobilitazioni che hanno invaso i social durante gli ultimi tre giorni, unendo associazioni ambientaliste, movimenti per la giustizia climatica e organizzazioni dei piccoli agricoltori. I politici europei e nazionali hanno deciso di non ascoltare le loro voci e piegarsi alle richieste delle grandi imprese dell’agroindustria riunite nella potente lobby del Copa-Cogeca.
In sostanza, un pacchetto da circa 50 miliardi annui, 1/3 del bilancio UE, sarà ancora destinato all’agricoltura industriale. Nel decennio 2005-20016 la PAC ha arricchito solo il 20% delle imprese, mentre 10 milioni di persone hanno perso un lavoro in agricoltura. Nello stesso arco di tempo 4 milioni di aziende agricole hanno chiuso, ma la superficie coltivata è rimasta invariata, segno che le grandi imprese che prendono la maggior parte dei fondi europei comprano le terre di quelle piccole, che finiscono fuori mercato.
Questa politica ha fatto vincere le aziende che praticano agricoltura e allevamento intensivi e riducono la biodiversità, causando una fetta consistente delle emissioni europee. I voti di ieri sono un nuovo inchino a questi signori della crisi ecologica: ora l’unico modo per evitare di perdere anni che non abbiamo, è che la Commissione europea prenda atto del fatto che la sua proposta è stata snaturata e la ritiri.
Perché c’è bisogno di una risposta così drastica? Lo vediamo entrando nel dettaglio delle posizioni assunte dal Parlamento europeo e dal Consiglio dei Ministri dell’agricoltura, del quale fa parte per l’Italia Teresa Bellanova.
Cosa ha deciso il Parlamento Europeo
La posizione del Parlamento europeo prevede, in primo luogo, che il 60% dei fondi PAC non sia vincolato a pratiche agroecologiche. Questa decisione è in perfetta continuità con il passato e in netto contrasto con lo spirito del Green deal europeo, della strategia Farm to Fork e di quella sulla biodiversità, che fissavano obiettivi di riduzione dei pesticidi e dei fertilizzanti, rafforzamento delle aree naturali e conversione ecologica del settore agricolo.
La PAC, che divide i suoi sussidi in pagamenti diretti (primo pilastro) e aiuti per lo sviluppo rurale (secondo pilastro), fino a oggi ha permesso che l’80% dei fondi andasse ad appena il 20% delle aziende agricole. Si tratta di imprese di grande dimensione, votate alla produzione industriale e all’allevamento intensivo. Alle piccole aziende sarà destinato soltanto il 6% dei pagamenti.
L’idea originaria di destinare parte dei pagamenti diretti – diversamente dalle altre volte – a pratiche agricole ecologiche è stata ribaltata: il voto dell’Europarlamento, sulla carta, sembra riservare a questi eco-schemi il 30% dei fondi del primo pilastro, in realtà li subordina alla convenienza economica per l’agricoltore. Tradotto: se pratiche come la rigenerazione dei suoli, l’aumento delle zone riservate alla natura fra gli appezzamenti o l’abbandono dei pesticidi chimici comportano un aumento dei costi, possono essere evitate.
Una formula che inverte le priorità tra ecologia ed economia, oltre ad aprire la porta allo sviluppo di nuovi OGM e agricoltura di precisione, strumenti su cui molte grandi aziende vogliono investire ma che – a fronte di un “rinverdimento” tutto da dimostrare – presentano rischi per la biodiversità. Come se non bastasse, agli Stati membri viene vietato di aumentare i fondi per gli eco-schemi e di fissare standard ambientali più elevati da rispettare per ottenere fondi pubblici.
Continuando a scorrere il testo di compromesso approvato, vediamo che nei siti Natura 2000, le zone ecologicamente più importanti destinate alla protezione di piante e animali, potranno essere arati e convertiti i prati permanenti, ad eccezione di non meglio definite “aree particolarmente sensibili”.
Sono stati bocciati tutti i dieci emendamenti che chiedevano un allineamento della PAC agli obiettivi del Green deal. È stato approvato un emendamento che auspica la connessione fra PAC e accordo di Parigi, ma ne è stato bocciato un altro che vincolava la PAC a ridurre le emissioni del sistema alimentare del 30% entro il 2027.
L’unica buona notizia è l’inserimento di una “condizionalità sociale”, che prevede l‘azzeramento dei fondi agli agricoltori che non rispettano i contratti di lavoro. Una vittoria che tuttavia non è definitiva: la posizione del Parlamento europeo dovrà essere infatti sostenuta nel dialogo a tre con Commissione e Consiglio per arrivare al compromesso finale e definitivo. Inoltre, non basta a riequilibrare la drastica riduzione delle ambizioni ecologiche.
La posizione degli Stati membri
Dopo un negoziato durato tutta la notte, il 21 ottobre di primo mattino anche i Ministri dell’Agricoltura degli stati membri dell’UE hanno raggiunto una posizione comune sulla PAC, con la quale si presenteranno al negoziato finale con Commissione e Parlamento.
Se possibile, il testo è perfino peggiore di quello uscito dall’Eurocamera. Prevede solo un 20% dei fondi per gli eco-schemi, che saranno obbligatori per i paesi membri ma volontari per gli agricoltori, lasciando quindi la possibilità di non aderire. Inoltre i pagamenti ambientali vengono inquinati dalla proposta di inserire sussidi per numero di capi allevati: in questo modo, più se ne possiedono, più aumenta il finanziamento. Ciò significa che, con i fondi destinati alla riconversione ecologica, si potranno sostenere gli allevamenti intensivi.
La biodiversità, cui originariamente doveva essere destinata il 10% della superficie agricola totale dell’UE, viene ristretta al 5% della superficie agricola utilizzata (che occupa un’area inferiore). La proposta di assicurare una protezione “adeguata” delle torbiere, importantissimi serbatoi di carbonio per l’Unione, diventa “minima”, e soltanto a partire dal 2025. In pratica, un’area pari al 3% della superficie agricola europea, capace di stoccare una quantità di carbonio pari al 25% dei gas serra emessi dall’agricoltura e il 5% delle emissioni totali europee, sarà esposta allo sfruttamento.
Viene cancellato lo strumento di gestione sostenibile dei nutrienti, che sarebbe servito a ridurre l’uso di fertilizzanti richiesto dalla strategia Farm To Fork. Salta la rotazione obbligatoria delle colture, necessaria a preservare l’impoverimento dei suoli provocato dalle monocolture. I prati permanenti nelle zone protette della Rete Natura 2000 vengono aperti alla conversione in terreni produttivi.
Ancora: nella porzione di budget del secondo pilastro (sviluppo rurale) destinata a misure ambientali verranno calcolate anche misure che non hanno a che fare con l’ambiente. I fondi vincolati a pratiche ecologiche nel secondo pilastro si riducono quindi del 40%.
Le performance ambientali, inoltre, saranno proprio impossibili da misurare: vengono cancellati gli indicatori per misurare l’area destinata alla biodiversità in ogni azienda, così come quelli per misurare le emissioni degli allevamenti intensivi. Scompare la creazione di nuove aree destinate a bosco permanente. Saranno sostenute solo pratiche di utilizzo commerciale: la protezione degli ecosistemi e delle foreste diventa infatti “gestione sostenibile”.
Addio infine a ogni velleità di sostenere una rilocalizzazione della produzione: la proposta originaria di sostenere mercati locali e filiere corte viene affossata. Le uniche disposizioni vanno nella direzione di una miglior organizzazione della filiera industriale.
Una sola strada: ritirare la PAC
Nel maggio 2020, la Commissione europea ha dichiarato che la PAC sarebbe stata compatibile con il Green deal europeo. Lo stesso Green deal, proposto nel dicembre 2019, si proponeva come politica trasversale a tutti i settori, trovando le sue fondamenta economiche nelle politiche chiave dell’UE, di cui la PAC è forse la più importante. I 387 miliardi in 7 anni – pari ogni anno a un terzo del bilancio comunitario – erogati all’agricoltura dovevano servire a dare una decisa torsione ecologica al settore primario.
Non succederà. I voti di questa settimana nel Parlamento europeo e nel Consiglio dei Ministri dell’agricoltura dell’UE hanno così indebolito il testo, che oggi non è più possibile mantenere la promessa. Per questo, come associazioni e movimenti per la giustizia climatica e sociale, chiediamo all’esecutivo europeo di ritirare la sua proposta iniziale senza iniziare il dialogo a tre con Europarlamento e Consiglio.
Non ci sono le condizioni per raggiungere un compromesso minimamente accettabile, anzi: si rischia un completo svuotamento di senso della Politica agricola comune, che comprometterebbe definitivamente ogni velleità di riconversione ecologica e ogni ambizione europea di guidare la transizione globale.